L'intento del libro Genocidio di Georges Bensoussan, ora tradotto in italiano, è indagare quali sono le origini culturali del nazismo: si occupa cosí di un tema classico nella storia delle idee, in cui questa disciplina dispiega la sua grande importanza per comprendere la storia, ma anche tutti i suoi trabocchetti e i suoi terreni scivolosi, tutte le sue soluzioni facili e ingannevoli.
È possibile trattare delle origini culturali del Terzo Reich solo se si è convinti che il fenomeno nazionalsocialista non rappresenti una malattia repentina nella storia tedesca, ma sia stato preparato da autori, temi, discussioni, che in qualche modo lo hanno reso possibile.
È opportuno chiedersi subito se "origini" sia da intendere come "cause": ricostruire le correnti intellettuali che stanno a monte della nascita del regime hitleriano significa rintracciare il punto di partenza di atteggiamenti, stili di pensiero, convinzioni, che hanno avuto quel regime come effetto? Ovvero: la storia delle idee può essere illuminata a posteriori dall'esito al quale le idee individuate come origini hanno condotto? La forza della cultura uscirebbe molto rinvigorita da una simile convinzione, ma anche con una responsabilità che non sappiamo quanto sia lecito attribuirle.
Il termine "origini" non si impegna in una simile affermazione, ma suggerisce in realtà, anche quando non lo dice in modo esplicito, che le premesse culturali sono essenziali nella formazione e nell'affermazione di un simile regime. Preparano il terreno indispensabile mettendo in circolazione questioni e accenti che formano il contenuto ideologico del regime a venire, predispongono ad ascoltare con attenzione e con favore parole d'ordine altrimenti inaccettabili, insegnano a non reagire in modo decisamente negativo ai provvedimenti del governo che assume il potere. In definitiva, ogni ricerca che si incammini per questa strada tenta di rintracciare quali parti delle premesse intellettuali siano state messe in pratica dal regime che poi si è affermato. Una volta che le ha identificate, definisce quelle parti come le origini culturali di tale regime.
Bensoussan rintraccia le origini culturali del nazismo in cinque correnti, che colloca tutte tra la seconda metà dell'Ottocento e gli anni Venti del Novecento: l'antilluminismo, il biologismo applicato alla storia e alla cultura, il culto della violenza, l'antisemitismo, il pessimismo culturale. Definisce il nazismo esclusivamente in termini di sterminio degli ebrei. Collega in modo stretto le correnti culturali che ha individuato con il nazismo cosí concepito. In questo percorso, a prima vista lineare, si nascondono più interrogativi che risposte, più soluzioni apparenti che indagini circostanziate, e a ogni proposta di spiegazione si affiancano altrettanti dubbi.
Iniziamo dall'antilluminismo: con questo termine Bensoussan intende la ripresa, alla fine del XIX secolo, del pessimismo radicale sulla natura umana (che proprio per questo esige il controllo sui cittadini da parte di uno stato forte) che era stato tipico degli autori controrivoluzionari, dei quali viene preso a esempio e tipo ideale Joseph de Maistre. Essi, a loro volta, basavano le loro teorie su un cristianesimo controriformista che vedeva il mondo invaso dal diavolo, destinato a una catastrofe, bisognoso di salvezza. Da qui deriverebbe il pessimismo culturale fin-de-siècle che vedeva il mondo sotto il segno della decadenza.
Peccato che le correnti culturali siano meno univoche di quanto possano apparire a prima vista. Proprio di uno dei maggiori illuministi, Voltaire, era la convinzione dell'esistenza delle razze e della gerarchia fra di esse, mentre non tutto il pensiero critico della Rivoluzione francese si fa ridurre a
reazione. Esiste anche la posizione liberalconservatrice espressa da uno dei primi e maggiori autori che riflettono criticamente sul 1789, Edmund Burke. Lo stesso vale per il pessimismo culturale: questo non era solo di matrice cristiana, come nel testo si sostiene, ma anche neopagana, vagamente spiritualista, e nient'affatto caratterizzata in senso religioso.
Ancor più difficile è identificare un suo preciso esito politico. La salvezza dal declino del mondo moderno era osservata da parti diverse, opposte: il presente veniva criticato perché troppo democratico o perché lo era troppo poco, perché troppo astratto o troppo concreto, perché impotente o perché malato di efficientismo; la salvezza dal declino era pensata come ancien régime o come un mondo di uomini liberi e uguali che potessero coltivare la loro anima.
Si può essere pessimisti sulla natura umana senza per questo vedere con favore le camere a gas, si può leggere nel mondo moderno un declino inarrestabile senza per questo sposare le ragioni dell'Olocausto. Inoltre, l'odio per la democrazia, lo spirito borghese, il parlamentarismo, proveniva in quel periodo da destra e da sinistra: e anche se sommiamo la critica alla democrazia con l'idea che l'uomo non sia buono per natura, e perfino con l'idea che la civiltà sia in una fase declinante, ciò che ne risulta non è necessariamente una posizione fascista (come Bensoussan afferma), ma semplicemente antimodernista.
È arduo sostenere che l'antimodernismo coincida con il fascismo, dal momento che l'equazione non torna da nessuna delle due parti. Da un lato il fascismo, cosí come il nazismo, fu anche fede nello sviluppo, nella creazione di uno stato e di un uomo nuovi, nell'industria, nel futuro, nella modernità; dall'altro, l'antimodernismo non è necessariamente la premessa del totalitarismo, tanto è vero che esiste anche un antimodernismo di sinistra.
Anche per quel che concerne il biologismo e il razzismo, che per Bensoussan preparano lo sterminio, le domande sono numerose. È vero che la cancellazione dell'umanità dell'uomo effettuata dal nazismo prende avvio dallo studio scientifico dell'essere umano che lo considera come un animale tra gli altri animali? Tutto il darwinismo sociale può essere considerato alla luce della soppressione dei deboli, di coloro che risultano perdenti nella lotta per la sopravvivenza applicata alla società? In un infiacchimento degli esseri umani credeva, a esempio, un autore come George Orwell, a proposito del quale è difficile parlare di simpatie naziste. Dell'onnipresenza dell'idea di razza nel periodo esaminato il volume offre un quadro inquietante, ma dubitiamo che l'idea di razza implicasse per tutti coloro che la utilizzavano una gerarchia fra le razze, un miglioramento da apportare a esse, la soppressione di una parte della popolazione.
Scrive Bensoussan: «Nel momento in cui la classe porta allo scontro (ma, anche, al compromesso), la razza genera l'idea di sterminio». Occorre notare che vi sono stati stermini (come quello staliniano) che non muovevano dall'idea di razza; vi sono stati scontri generati dalla prospettiva di classe che si sono tradotti in genocidi (si veda la Cambogia), mentre la razza, nella quale crede, non conduce tutta la cultura scientista di fine Ottocento al razzismo, tanto che molti positivisti sono sostenitori di un riformismo socialista che del darwinismo riprende solo l'evoluzione intesa come un progresso lento e inevitabile che elimina la necessità della rivoluzione.
Nelle premesse culturali del nazismo a essere in questione è la modernità: «L'ossessione della razza … è da mettere in relazione con la perdita dei punti di riferimento in un mondo diventato inintelligibile, e segna quella linea di sicurezza in un momento in cui ogni limite sembra svanire». Quasi che la responsabilità della centralità della razza in quel periodo sia da attribuire a un mondo che perdeva radici, sicurezza, si modificava troppo velocemente per gli esseri umani, lasciando una terra sconvolta e un cielo vuoto.
Bensoussan legge il pessimismo culturale in senso antiebraico poiché a suo parere fa dell'ebreo il simbolo della modernità. Ma il pessimismo culturale è decisamente critico di una modernità urbana, sradicata, artificiale: non è necessariamente antiebraico, cosí come non lo è l'antimodernismo. Per Oswald Spengler (uno dei maggiori esponenti del pessimismo culturale di quegli anni), il nomade
abitatore delle megalopoli contemporanee, sradicato da ogni terra, era il prototipo dell'uomo moderno, non dell'ebreo. Il fatto che antisemiti e critici della modernità di fine Ottocento dirigano i loro strali verso le stesse caratteristiche – urbanesimo, industrialismo, freddezza, impersonalità, artificialità crescente della vita – non autorizza a identificare le due correnti. Scrive Bensoussan: «Sinonimo di eredità da trasmettere, la razza è ciò che resta di fronte all'angoscia per l'opera distruttrice del tempo, e a maggior ragione sotto un cielo vuoto». Ma l'antisemitismo non è affatto un esito scontato di quell'atteggiamento che vede nella modernità una caduta. Si legge: «L'ebreo è necessario al nostro mondo, poiché la sua presunta malvagità cristallizza l'inquietudine sorta da un universo nuovo e incomprensibile». Certo, è innegabile che l'ebreo abbia fatto da capro espiatorio: come tutti i capri espiatori, ha compattato chi lo condannava e lo uccideva. Ma è possibile ricondurre l'antisemitismo al disagio della modernità? Se cosí fosse, perché ogni paese moderno non ha avuto il suo antisemitismo?
La sostanza del nazismo consiste, a giudizio dell'autore, nello sterminio degli ebrei, cioè nel genocidio del titolo. Ovvio che il razzismo, l'antigiudaismo, l'ideologia guerresca, il machismo, il darwinismo sociale, siano riconosciuti quali sue premesse. L'antigiudaismo caratterizza l'Occidente dal Medioevo in poi: resta da spiegare perché proprio in quel momento divenne un'idea-forza capace di tradursi nella tragedia della Shoah. Se quelle premesse sono pressoché tautologiche, siamo certi che il pessimismo culturale rappresenti una premessa altrettanto ovvia, altrettanto indiscutibile del nazismo? Il pessimismo culturale esprime una ripulsa della modernità e la convinzione che un'epoca dalle caratteristiche cosí negative condurrà a una fine dei tempi, a una catastrofe certa. È importante il tentativo di prendere sul serio questa corrente: ma si tratta di una corrente culturale assai composita, che da questa indagine risulta invece appiattita: è difficile, poi, indicare quale sia la sua traduzione politica, arduo addirittura affermare se ne abbia una. Peraltro, il pessimismo culturale non coincide completamente con l'impostazione che il nazionalsocialismo dà alla sua visione della storia né alla sua considerazione del progresso materiale, del valore dell'industrialismo e della modernità.
Come regime reale, il nazismo non poteva essere troppo nostalgico, e doveva, accanto al vagheggiamento di epoche più organiche, più comunitarie, più solidali, più artigianali nella storia del mondo, promuovere la propria industria per competere ad armi pari con le altre nazioni. La stessa cosa accade nel fascismo italiano, dove la contrapposizione fra un'epoca di crisi storica e di declino (che coincideva con l'epoca liberale, e anche con l'urbanesimo, il macchinismo, l'egoismo individualista) e un'epoca alta che coincideva con il fascismo e si caratterizzava con un ritorno alla terra, all'artigianato, al lavoro delle mani, alla corporazione medievale, doveva comunque fare i conti con la promozione della grande industria, di quelle macchine che sciupano il mondo e che erano tanto deprecate.
L'esaltazione della violenza e della guerra che Bensoussan individua nella cultura europea tra 1880 e 1914 può essere ricondotta per intero a preparazione del sistematico stato di eccezione del nazismo e alle sue violenze? Può essere ritenuta «la matrice di una brutalizzazione della società» accentuata poi dalla Grande Guerra? In verità, nell'esaltazione della violenza tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo confluiscono elementi molto diversi: il marxismo ortodosso che rifiuta il compromesso revisionista con il parlamentarismo, la lotta alla società borghese di Georges Sorel, l'anarchismo e i primi movimenti nazionalisti di massa. Dalla critica a una società che elimina dalla vita degli uomini la competizione e il progresso riducendoli a meccanismi tutti uguali, dal richiamo alla necessità della lotta anche cruenta, possono essere tratte conseguenze diverse: da un vitalismo individuale alla definizione del conflitto e della competizione come molle dello sviluppo, dall'esaltazione della selezione a favore dei migliori in quella lotta che è la vita al richiamo a non abbandonarsi agli automatismi sociali.
Le origini culturali del nazismo
MICHELA NACCI
GEORGE BENSOUSSAN, Genocidio. Una passione europea, a cura di Frediano Sessi, trad. di Carlo Saletti e Lanfranco Di Genio, Venezia, Marsilio, pp. 396
MICHELA NACCI insegna Storia delle dottrine politiche all'Università dell'Aquila. La sua opera più recente è Storia culturale della Repubblica (Bruno Mondadori, 2009).
Source: La Rivista dei Libri
http://www.larivistadeilibri.it/2009/10/nacci.html
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Saturday, January 16, 2016
Friday, December 18, 2015
German Expansionism, Imperial Liberalism and the United States, 1776–1945
Germany and the "Laissez-Faire" Imperialism of the United States
Linked to the rise in domestic industrial capacity and the ascent of an educated, commercially minded liberal political class desirous of expanded economic opportunities, Germany’s global penetration during the long nineteenth century was predicated on the conviction that overseas expansion would deliver both mercantile benefits and domestic political change. Over the past decade, this period of domestic change and international activity has been a fruitful field for researchers studying the historical development of Germany. Historians have variously framed this penetration through the superordinate concept of “globalization”; or alternatively, imperialism, which is one of globalization’s primary historical forms.
Whether viewed as imperial or globalizing endeavors, German attempts at overseas penetration during the nineteenth century did not take place in a historical vacuum, with numerous, preexisting European empires all but crowding Germany out of the ranks of the global empires. While the antiquated Iberian empires offered a counterexample to German liberals, the blue water empires of the British, the French, and the Dutch were perceived by German liberals as exemplars of successful European liberal imperialist ventures. With great verve and clarity, Jens-Uwe Guettel makes the case that missing from this picture is the key role of the United States, which he argues was central to German understandings of liberal empire and in some respects offered a template for German approaches to expansionism. Guettel traces Germany’s liberal imperialism, or as he terms it, “imperial liberalism,” from the late eighteenth to the mid-twentieth centuries, showing the numerous points of transatlantic overlap. Beginning with Immanuel Kant, Alexander von Humboldt, and Christoph Meiners’ respective meditations on slavery, which derived their content from Anglo-American models, he illustrates how the tension between the negative experience of the condition of slavery for the slave and the utility of slavery as an institution enabling further European economic development was resolved in favor of the latter. From here, Guettel’s account moves on to a refutation of the notion of any special German affinity or empathy for the plight of Native Americans. He does this by demonstrating the favorable reception in Germany of American narratives of the “vanishing” Amerindians, which presented the extraordinary excess death rates associated with imperial expansion as either inexplicable “natural” occurrences or, quite often, a process in line with world-historical developments which dictated that “higher” forms of life must displace “lower” ones. Astutely, Guettel points out that this racializing discourse was multidirectional, with Friedrich Ratzel not merely transmitting current U.S. thought on indigenous policy, but also contributing to the renewal of liberal imperialist thought in the United States, influencing figures such as Frederick Jackson Turner. At this point it might have been interesting to see Guettel go even further and try to assess the impact and agency of ordinary German settlers in the United States on this transcontinental exchange. An admittedly difficult task, it might nonetheless have been possible by utilizing the material uncovered by Stefan von Senger und Etterlin in his 1991 work Neu-Deutschland in Nordamerika: Massenauswanderung, nationale Gruppenansiedlungen und liberale Kolonialbewegung, 1815 – 1860.
One of the main elements of U.S. imperialism that Guettel sees as translating well to the German context was the emphasis on what he terms the American-style laissez-faire approach to empire, which he argues particularly informed the views of not only Ratzel but also the left-liberal colonial secretary Bernhard Dernburg. Central to this American model were political liberty, economic self-reliance, a decentralized approach to settlement patterns, and a localized, “rational” approach to issues of colonial racial hierarchy. While the first three were certainly laissez-faire, the decentralized aspects of U.S. racial policy that Germany adopted were, at least in the late imperial period, not always apparent, as Guettel admits. A tension between localizing and centralizing impulses was apparent, pronouncedly so under the left-liberal colonial secretary Wilhelm Solf, who in 1912 moved from a reliance on colony-specific ordinances forbidding miscegenation and mixed marriages towards a demand that such measures be enacted from Berlin and enshrined in national legislation. With Solf’s call for a law against mixed marriages defeated by the combined forces of the Catholic Centre Party and the Social Democrats in the Reichstag, Guettel explains how Solf once again turned to the example of the United States; this time to study how the segregationist Jim Crow laws of some states coexisted with the Fourteenth and Fifteenth Amendments, which seemed to contradict them at the federal level.
Guettel quite correctly reveals just how much changed for Germany after World War One. Germany lost a significant portion of its territory, including all of its overseas colonies, while also enduring a period of partial occupation, including occupation by African troops brought in under French auspices. This inversion of the hitherto-prevailing colonial socio-racial order was decried in the German press. In addition, as a result of the American entry into the war, Germany’s relationship with the United States suffered greatly, to the extent that favorable allusions to U.S. racial conditions in post-1918 German debates fell off markedly. Even more obvious, Guettel reveals, was the Nazi Party’s disdain for the state of racial law in the United States. Rejecting the prewar enthusiasm for a decentralized approach to racial law, the Nazis instead argued that the United States was in fact a racially degenerating counterexample which should follow the new, highly centralized German approach. “Unlike in 1912,” Guettel argues, “in 1935 America was not allowed to be exemplary” (p. 200). The previously admired liberal mode of U.S. imperialism was necessarily criticized on the same grounds--it lacked centralization and was too heavily bound up in notions such as individualism and political liberty which, the Nazis claimed, they had superseded. In this way, Guettel convincingly disrupts accounts of Nazi imperialism that stress its continuity with prewar forms of liberal imperialism, suggesting instead that “the pre-1914 imperialism and post-1918 visions of living space in the East existed as perceived opposites within a framework of dialectical tension” (p. 223).
A natural field of further inquiry for both the author and other future researchers is the liberal depictions of Central Europe in nineteenth-century Germany. Raised briefly in the first chapter, it is one area that might profit from further analysis. Perhaps in deference to Woodruff Smith’s seminal Lebensraum/Weltpolitik distinction, Guettel seems to stress the distinction between overseas empire and contiguous European empire in liberal circles.[1] While he correctly points out the marked differences between liberal imperialism and Nazi imperialism in terms of political modality, racial policy, and manner of execution, it is worth remembering that German liberals such as Friedrich List, Friedrich Naumann, and Max Weber also had their own sense of a German-dominated Mitteleuropa (Central Europe) that complemented liberal demands for an overseas empire, as Guettel acknowledges (p. 63). The partial overlap in the imperial topography of liberal Germans and Nazi Germans does not mean that there were uniquely German structural or political continuities that determined the shift from liberal to Nazi imperialism. Given too that U.S. liberal imperialism largely (but not exclusively) took the shape of contiguous territorial expansion, Guettel might profitably assess how Central Europe looked to not just the Nazis but also nineteenth-century liberal Germans familiar with U.S. expansionism. This could potentially strengthen his already detailed and convincing refutation of overarching and idiosyncratic lines of political and imperial continuity in German history.
Guettel’s book is admirable for a number of reasons. It expertly dissects the twin myths that U.S. expansionism was uniquely devoid of violent, imperialist characteristics, and that the history of German imperialism is somehow reducible to proto-Nazi violence. Citing the myriad statements of violent intent against indigenous people made by U.S. liberals and noting the transferal of these statements to German public discourse, Guettel lays out precisely how strategies for imperial consolidation were not contained to individual nation-states but were translocated. The book also successfully contextualizes prewar German imperialism within a liberal milieu which shared a set of assumptions with its American counterpart regarding the correct forms of imperial penetration and the requisite means for dealing with recalcitrant indigenous populations unwilling or unable to submit to the rigors of European politico-military dominance and work discipline. As Guettel shows, imperialism and the forms of socio-racial knowledge it engendered were an integral part of liberalism on both sides of the Atlantic.
Note
[1]. Woodruff D. Smith The Ideological Origins of Nazi Imperialism (New York: Oxford University Press, 1986).
Jens-Uwe Guettel. German Expansionism, Imperial Liberalism and the United States, 1776–1945. Cambridge: Cambridge University Press, 2012. 292 S. $90.00 (cloth), ISBN 978-1-107-02469-4.
Reviewed by Matthew P. Fitzpatrick (Flinders University)
Published on H-Diplo (April, 2013)
Commissioned by Seth Offenbach
Source: H-Net
https://www.h-net.org/reviews/showrev.php?id=38209
Linked to the rise in domestic industrial capacity and the ascent of an educated, commercially minded liberal political class desirous of expanded economic opportunities, Germany’s global penetration during the long nineteenth century was predicated on the conviction that overseas expansion would deliver both mercantile benefits and domestic political change. Over the past decade, this period of domestic change and international activity has been a fruitful field for researchers studying the historical development of Germany. Historians have variously framed this penetration through the superordinate concept of “globalization”; or alternatively, imperialism, which is one of globalization’s primary historical forms.
Whether viewed as imperial or globalizing endeavors, German attempts at overseas penetration during the nineteenth century did not take place in a historical vacuum, with numerous, preexisting European empires all but crowding Germany out of the ranks of the global empires. While the antiquated Iberian empires offered a counterexample to German liberals, the blue water empires of the British, the French, and the Dutch were perceived by German liberals as exemplars of successful European liberal imperialist ventures. With great verve and clarity, Jens-Uwe Guettel makes the case that missing from this picture is the key role of the United States, which he argues was central to German understandings of liberal empire and in some respects offered a template for German approaches to expansionism. Guettel traces Germany’s liberal imperialism, or as he terms it, “imperial liberalism,” from the late eighteenth to the mid-twentieth centuries, showing the numerous points of transatlantic overlap. Beginning with Immanuel Kant, Alexander von Humboldt, and Christoph Meiners’ respective meditations on slavery, which derived their content from Anglo-American models, he illustrates how the tension between the negative experience of the condition of slavery for the slave and the utility of slavery as an institution enabling further European economic development was resolved in favor of the latter. From here, Guettel’s account moves on to a refutation of the notion of any special German affinity or empathy for the plight of Native Americans. He does this by demonstrating the favorable reception in Germany of American narratives of the “vanishing” Amerindians, which presented the extraordinary excess death rates associated with imperial expansion as either inexplicable “natural” occurrences or, quite often, a process in line with world-historical developments which dictated that “higher” forms of life must displace “lower” ones. Astutely, Guettel points out that this racializing discourse was multidirectional, with Friedrich Ratzel not merely transmitting current U.S. thought on indigenous policy, but also contributing to the renewal of liberal imperialist thought in the United States, influencing figures such as Frederick Jackson Turner. At this point it might have been interesting to see Guettel go even further and try to assess the impact and agency of ordinary German settlers in the United States on this transcontinental exchange. An admittedly difficult task, it might nonetheless have been possible by utilizing the material uncovered by Stefan von Senger und Etterlin in his 1991 work Neu-Deutschland in Nordamerika: Massenauswanderung, nationale Gruppenansiedlungen und liberale Kolonialbewegung, 1815 – 1860.
One of the main elements of U.S. imperialism that Guettel sees as translating well to the German context was the emphasis on what he terms the American-style laissez-faire approach to empire, which he argues particularly informed the views of not only Ratzel but also the left-liberal colonial secretary Bernhard Dernburg. Central to this American model were political liberty, economic self-reliance, a decentralized approach to settlement patterns, and a localized, “rational” approach to issues of colonial racial hierarchy. While the first three were certainly laissez-faire, the decentralized aspects of U.S. racial policy that Germany adopted were, at least in the late imperial period, not always apparent, as Guettel admits. A tension between localizing and centralizing impulses was apparent, pronouncedly so under the left-liberal colonial secretary Wilhelm Solf, who in 1912 moved from a reliance on colony-specific ordinances forbidding miscegenation and mixed marriages towards a demand that such measures be enacted from Berlin and enshrined in national legislation. With Solf’s call for a law against mixed marriages defeated by the combined forces of the Catholic Centre Party and the Social Democrats in the Reichstag, Guettel explains how Solf once again turned to the example of the United States; this time to study how the segregationist Jim Crow laws of some states coexisted with the Fourteenth and Fifteenth Amendments, which seemed to contradict them at the federal level.
Guettel quite correctly reveals just how much changed for Germany after World War One. Germany lost a significant portion of its territory, including all of its overseas colonies, while also enduring a period of partial occupation, including occupation by African troops brought in under French auspices. This inversion of the hitherto-prevailing colonial socio-racial order was decried in the German press. In addition, as a result of the American entry into the war, Germany’s relationship with the United States suffered greatly, to the extent that favorable allusions to U.S. racial conditions in post-1918 German debates fell off markedly. Even more obvious, Guettel reveals, was the Nazi Party’s disdain for the state of racial law in the United States. Rejecting the prewar enthusiasm for a decentralized approach to racial law, the Nazis instead argued that the United States was in fact a racially degenerating counterexample which should follow the new, highly centralized German approach. “Unlike in 1912,” Guettel argues, “in 1935 America was not allowed to be exemplary” (p. 200). The previously admired liberal mode of U.S. imperialism was necessarily criticized on the same grounds--it lacked centralization and was too heavily bound up in notions such as individualism and political liberty which, the Nazis claimed, they had superseded. In this way, Guettel convincingly disrupts accounts of Nazi imperialism that stress its continuity with prewar forms of liberal imperialism, suggesting instead that “the pre-1914 imperialism and post-1918 visions of living space in the East existed as perceived opposites within a framework of dialectical tension” (p. 223).
A natural field of further inquiry for both the author and other future researchers is the liberal depictions of Central Europe in nineteenth-century Germany. Raised briefly in the first chapter, it is one area that might profit from further analysis. Perhaps in deference to Woodruff Smith’s seminal Lebensraum/Weltpolitik distinction, Guettel seems to stress the distinction between overseas empire and contiguous European empire in liberal circles.[1] While he correctly points out the marked differences between liberal imperialism and Nazi imperialism in terms of political modality, racial policy, and manner of execution, it is worth remembering that German liberals such as Friedrich List, Friedrich Naumann, and Max Weber also had their own sense of a German-dominated Mitteleuropa (Central Europe) that complemented liberal demands for an overseas empire, as Guettel acknowledges (p. 63). The partial overlap in the imperial topography of liberal Germans and Nazi Germans does not mean that there were uniquely German structural or political continuities that determined the shift from liberal to Nazi imperialism. Given too that U.S. liberal imperialism largely (but not exclusively) took the shape of contiguous territorial expansion, Guettel might profitably assess how Central Europe looked to not just the Nazis but also nineteenth-century liberal Germans familiar with U.S. expansionism. This could potentially strengthen his already detailed and convincing refutation of overarching and idiosyncratic lines of political and imperial continuity in German history.
Guettel’s book is admirable for a number of reasons. It expertly dissects the twin myths that U.S. expansionism was uniquely devoid of violent, imperialist characteristics, and that the history of German imperialism is somehow reducible to proto-Nazi violence. Citing the myriad statements of violent intent against indigenous people made by U.S. liberals and noting the transferal of these statements to German public discourse, Guettel lays out precisely how strategies for imperial consolidation were not contained to individual nation-states but were translocated. The book also successfully contextualizes prewar German imperialism within a liberal milieu which shared a set of assumptions with its American counterpart regarding the correct forms of imperial penetration and the requisite means for dealing with recalcitrant indigenous populations unwilling or unable to submit to the rigors of European politico-military dominance and work discipline. As Guettel shows, imperialism and the forms of socio-racial knowledge it engendered were an integral part of liberalism on both sides of the Atlantic.
Note
[1]. Woodruff D. Smith The Ideological Origins of Nazi Imperialism (New York: Oxford University Press, 1986).
Jens-Uwe Guettel. German Expansionism, Imperial Liberalism and the United States, 1776–1945. Cambridge: Cambridge University Press, 2012. 292 S. $90.00 (cloth), ISBN 978-1-107-02469-4.
Reviewed by Matthew P. Fitzpatrick (Flinders University)
Published on H-Diplo (April, 2013)
Commissioned by Seth Offenbach
Source: H-Net
https://www.h-net.org/reviews/showrev.php?id=38209
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